MILANO – L’uccisione di Anis Amri chiude una partita, quella della strage di Berlino, ma ne apre un’altra: quella della presenza di terroristi sul suolo Italiano. La domanda infatti è questa: cosa ci faceva alle tre del mattino in piazza Primo Maggio a Sesto San Giovanni il terrorista più ricercato d’ Europa?
La risposta più probabile secondo gli inquirenti, è che il tunisino Anis Amri, si trovasse in quella piazza semplicemente in attesa della ripartenza all’alba degli autobus per raggiungere chissà quale luogo dove eclissarsi. Da lì partono infatti pullman per la Spagna, la Polonia, l’Albania e il Sud Italia. La Calabria, in particolare, regione dalla quale, dice ai poliziotti che lo fermano, di provenire. Forse vuole arrivare proprio qui, e cercare qualcuno che ha conosciuto durante la sua permanenza nelle carceri siciliane per quattro anni, magari che gli procuri documenti falsi con cui raggiungere le coste africane.
Amri, sono convinti gli investigatori, è un solitario in fuga, un cane sciolto, senza veri amici, fidanzate o famigliari, non può contare su nessun appoggio. Ha un cellulare, ma non è utilizzabile, che ora è al vaglio degli inquirenti. Non può dunque chiamare nessuno ma nemmeno essere intercettato. Indossa due paia di pantaloni, uno sopra l’altro, ha dormito per strada in Francia, a Lione, e nello zainetto conserva i biglietti del treno preso a Chambéry e una sim card olandese, ma inattiva.
Esempio di jihadista di ultima generazione, privo di eterodirezione, radicalizzato su Internet e attraverso gli imam della Westfalia frequentati tra l’estate del 2015 e l’aprile del 2016, Anis incarna perfettamente il punto di forza del richiamo terroristico dell’Isis: l’assenza di regole e dunque di strutturazione nella guerra all’Occidente. Un «lupo solitario», l’ennesimo, senza alcun vero riferimento: ex balordo più vicino alla criminalità comune che agli ideali dell’Islam, si trasforma nell’ultimo anno in un «soldato» dello Stato Islamico e colpisce a Berlino come l’estate scorsa, un altro tunisino, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, depresso e appena separato dalla moglie, aveva colpito a Nizza, utilizzando un Tir e facendo strage tra la folla come tra le formiche.
Ma i collegamenti e le analogie, finiscono qua: nella nazionalità comune dei due attentatori e nella loro emarginazione sociale. Bouhlel ad esempio, muore da «martire», cioè si fa uccidere sulla promenade des Anglais. Anis invece, sta bene attento a non farsi prendere, riesce a far perdere le sue tracce dopo la strage, gira armato con una piccola calibro 22, attraversa incredibilmente incolume ben tre frontiere, spostandosi dalla Germania in Francia, per arrivare in Italia: alle 8 di sera a Torino, all’una in Stazione Centrale e alle 3, grazie probabilmente a un autobus sostitutivo della metropolitana, a Sesto San Giovanni, dove incontra due agenti svegli e coraggiosi che pongono fine alla sua fuga.
La seconda ipotesi, che ancora non può essere esclusa ma rappresenterebbe un’anomalia nella routine del comportamento terroristico jihadista, è che il giovane si trovasse a Sesto San Giovanni per aspettare qualcuno. Avesse cioè un appuntamento con chi avrebbe dovuto offrirgli ospitalità per la sua latitanza. Forse non un complice, più probabilmente un conoscente che all’ultimo potrebbe aver deciso di non aiutarlo più.
Di certo la Brianza non è un luogo privo di possibilità per Anis. Anzi, se si mettono insieme i fatti di terrorismo degli ultimi anni, si scopre che la zona che si estende tra Monza e Lecco, rappresenta un’area di grande attività per l’estremismo islamico che ha già visto espulsioni di due tunisini e un marocchino, oltre all’arresto, pochi mesi fa, del campione di pugilato svizzero Abderrahim Moutaharrik, italiano di origini marocchine. Per Anis, insomma, muoversi sul nostro territorio non era difficile: aveva imparato bene la lingua, conosceva le nostre abitudini. Ed è questo il problema, il nodo da sciogliere per gli investigatori.