ROMA – Matteo Renzi incassa la seconda delle tre fiducie chieste per forzare il passaggio dell’Italicum alla Camera. Oggi è attesto il terzo voto, mentre il via libera finale dovrebbe arrivare lunedì, tra le 22 e le 23. Nella tarda mattinata la seconda votazione. Questo l’esito: 350 a favore, 193 contrari, 37 i dissidenti del Pd. Ieri erano rispettivamente 352 pro, 207 contro e 38 contrari. I voti non collimano alla perfezione (da Sel è tornato all’ovile Matarelli, che oggi non ha votato la fiducia) ma il dato politico non cambia nel suo insieme.
Tra le file del premier non c’è timore di non farcela a superare il voto segreto finale sulla legge la prossima settimana, malgrado una quarantina di dissidenti del Pd siano determinati a non votarla. C’è invece una palese soddisfazione per aver indebolito il fronte interno avverso con un colpo che però lascerà il segno. «Grazie di cuore ai deputati che hanno votato la fiducia, la strada è ancora lunga, ma questa è la volta buona», cinguettava ieri il premier.
Anche oggi una cinquantina di deputati della minoranza Pd non hanno risposto alle sirene di Bersani, Letta, Cuperlo, Bindi, Speranza e sono rimasti in aula per votare sì. Con quelli che i renziani chiamano sprezzanti «gli ex generali senza truppe» sono restati 38 duri e puri che non hanno partecipato al voto. Tra loro oltre ai big ci sono Civati, Fassina, D’Attorre, Epifani. Alla fine la lacerazione tra i dissidenti è stata netta: dopo una travagliata assemblea nella sala Berlinguer finita alle due di notte, la corrente di Speranza, Area Riformista è deflagrata. I bersaniani dissidenti che non votano sono stati solo una ventina, i cuperliani una decina e il resto erano lettiani e bindiani vari.
L’Italicum allora sarà legge, e si aprirà una nuova fase politica. Lo fa sapere, con tutte le sfumature che si prestano ad un caso del genere, Angelino Alfano: «Ora si apre una fase nuova, quindi noi chiediamo al Governo e alla maggioranza di modificare la riforma costituzionale, quella del Senato, e abbiamo una proposta che ha portato avanti il nostro senatore Quagliariello», spiega. «Dobbiamo creare dei bilanciamenti istituzionali, e mi riferisco per esempio al sistema delle authorities e a un sistema del Senato più legittimato dal voto popolare».
Si riunisce subito dopo il voto la riunione dei capigruppo. I presidenti dei gruppi di Lega e Forza Italia lasciano anzitempo la riunione, per protestare contro la gestione del Presidente della Camera. «Il calendario se lo facciano Renzi e la Boldrini», dice, Massimiliano Fedriga, della Lega, «Boldrini si dimetta così farebbe una figura migliore e aiuterebbe il Parlamento a riacquisire una sua dignità». «Continua l’egemonia del Pd che, non contento di riassumere in sé i ruoli di opposizione e minoranza, replica questa dialettica all’interno dalla capigruppo e la presidente Boldrini, mi dispiace dirlo, non fa altro che svolgere il ruolo di notaio di questa situazione», gli fa eco l’omologo forzista Renato Brunetta.
«Certo ora si aprono incognite sul futuro», ammettono i renziani del cerchi magico. Ma nella war room del leader, dove l’analisi è in positivo – «lo strappo è stato più contenuto di quanto si poteva aspettare, il dissenso non sarà affrontato per via disciplinare», comunica urbi et orbi Lorenzo Guerini – si pensa già a come far rientrare la spaccatura. C’è in ballo il ruolo di capogruppo che potrebbe andare ad uno di quei 50 responsabili, come il giovane Enzo Amendola, poi c’è l’apertura a rivedere la riforma del Senato confermata da Renzi. E la certezza che non ci sarà scissione. Lo conferma Bersani quando dice «niente minipartito che entra in Parlamento con un misero 3%, non farò il nanetto di Biancaneve». E ci prova Cuperlo a negare che vi sia una strategia per liberarsi di Renzi. «La nostra è una forte critica alla scelta della fiducia, ma non siamo una setta militarizzata che vuole far cadere il governo».