ROMA – Il giorno dopo il via libera notturno alla fiducia sul Jobs act, nel Pd va in scena la resa dei conti con chi non ha votato a favore del governo. Matteo Renzi, nella veste di segretario del partito, riunisce la segreteria al Nazareno alle 8. Prima di entrare il premier ringrazia i senatori che «hanno lavorato per il bene del Paese» e attacca i grillini per il loro comportamento in Aula, «sceneggiate che ormai hanno stancato anche i loro elettori». Poi la mano tesa al senatore Walter Tocci, che ieri – dopo aver votato sì alla fiducia – ha spiegato di volersi dimettere da senatore. Le mani non sono tese, invece, con la Cgil. Che è tornata ad attaccare duramente il maxiemendamento approvato ieri. Con la fiducia sul Jobs act «il governo ha compiuto una palese forzatura che ha compresso il dibattito parlamentare, ha posto le basi per un’ulteriore precarizzazione dei giovani, ha tolto diritti invece di estenderli, ha aperto spazi all’arbitrio e al sopruso». E il sindacato si dichiaro pronto a una «lunga campagna per affermare le ragioni del lavoro».
Il premier tributa a Tocci l’onore delle armi e anticipa che si spenderà per evitare che quell’addio annunciato ieri a Palazzo Madama sia portato alle estreme conseguenze. Stefano Fassina lascia intendere, invece, che Tocci potrebbe non essere l’unico parlamentare Pd ad abbandonare le istituzioni per protesta dopo la fiducia sul Jobs act. E se il segretario Pd sottolinea che il senatore dimissionario è stato, almeno, conseguente a convinzioni personali e disciplina di partito, Lorenzo Guerini avverte che chi è rimasto a metà del guado se non è fuori del partito ha certamente messo in discussione il vincolo che lo lega alla «ditta». Insomma, il caso c’è e se ne occuperà la prossima direzione.
Gli altri tre ribelli (Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti e Felice Casson) ieri sono rimasti in ambascia fino all’ultimo, indecisi se seguire Tocci. Poi all’ultimo hanno deciso di uscire dall’aula senza votare “no”. E Tocci? «Le parole di Matteo Renzi mi hanno fatto molto piacere», confessa il protagonista di queste ore. «Renzi dice che nel partito possono convivere posizioni diverse? Se queste sono le intenzioni, abbiamo tutto il tempo per valutare». Per tutti gli altri ci sono le parole di Guerini: «Non partecipare al voto di fiducia mette in discussione i vincoli di relazione con il proprio partito politico», avverte il vicesegretario Pd riferendosi alla scelta, ieri, dei senatori Casson, Ricchiuti e Mineo. «Non sono fuori dal partito – precisa – poi ne discuteremo anche in direzione. Il tema per ora sarà affrontato dal gruppo del Senato».
A guidare lo sparuto drappello di frondisti c’è Pippo Civati. Che di fronte all’ipotesi di sanzioni disciplinari per i “suoi” senatori, protesta: «Non si può avere un partito all’americana, con eletti con le primarie, e poi immaginare che ci sia una disciplina di stampo sovietico». Per Civati «se ci sarà un intervento disciplinare nei confronti dei senatori che sono usciti dall’Aula del Senato al momento del voto credo che si aprirà un bel dibattito sulla democrazia interna». Nel partito, attacca, «c’è un problema grosso come una casa: molti hanno votato la fiducia non essendo d’accordo e lo hanno fatto solo per disciplina di partito, rispetto però a un partito che non ha mantenuto fede al proprio programma elettorale. Non ricordo che nessuno abbia detto che ci candidavamo a governare il Paese per cancellare l’articolo 18». E ancora: «Voi – ha detto rivolgendosi ai cronisti – amate la parola “scissione”, ma se non la fa Civati, poi la fa qualcun’altro. Quattro anni di governi di larghe intese stanno snaturando il Pd».
Con Civati sulle barricate, Bersani da una parte, Cuperlo dall’altra con la sua microcorrente Sinistradem, il caos regna nella minoranza Pd. «Secondo me adesso la minoranza Pd è molto più debole. Io il maxiemendamento l’ho letto, e non prende neanche tutte le promesse fatte nella direzione del Pd. Così il Parlamento non conta più», è il j’accuse di Corradino Mineo. Altri “casi Tocci” dietro l’angolo? «Non lo so… Dipenderà molto dalla disponibilità del presidente del Consiglio ad ascoltare posizioni non isolate e personali, ma condivise da pezzi significativi del nostro mondo e degli interessi economici e sociali che rappresentiamo e vogliamo continuare a rappresentare», lascia cadere lì Stefano Fassina. Che annuncia: «In assenza di modifiche significative» sul Jobs Act «io ritengo che la manifestazione della Cgil del 25 ottobre sia utile e quindi andrò in piazza.»
La conta finale al Senato ieri ha regalato al premier numeri importanti: 165 «si», 111 «no» e 2 astenuti. Si tratta, secondo quando ai apprende dai Dem, della «fiducia più alta dopo quella per le dichiarazioni programmatiche del premier». Nel Pd si parla anche di tesseramento, altro oggetto di scontro tra le diverse anime Dem. Al 30 settembre i tesserati del Partito democratico sono 239.322, «molto al di sopra dei numeri di cui si parlava nei giorni scorsi», sottolinea lo stesso Guerini. «Si tratta di un risultato importante che ci consente di guardare con fiducia al traguardo di 300mila iscritti che ci eravamo prefissati», assicura.