
PALERMO – I boss mafiosi vicini al boss Totò Riina avevano progettato l’omicidio del ministro dell’Interno Angelino Alfano, «colpevole» di avere aggravato il regime di carcere duro al 41 bis. La notizia emerge dall’operazione antimafia dei Carabinieri di Palermo, che all’alba di oggi ha portato all’arresto di sei persone, ritenute i nuovi boss di Corleone. Gli investigatori hanno captato, durante l’inchiesta «una intercettazione in chiaro in cui gli indagati di lamentavano del 41 bis inasprito dal ministro dell’Interno Alfano». E per questo motivo progettavano di ucciderlo, proprio come accadde nel 1963 a Dallas al Presidente degli Stati Uniti Kennedy ucciso da un uomo.
«Se c’è l’accordo gli cafuddiamo (diamo ndr) una botta in testa. Sono saliti grazie a noi. Angelino Alfano è un porco. Chi l’ha portato qua con i voti degli amici? È andato a finire là con Berlusconi e ora si sono dimenticati tutti». Così due mafiosi intercettati commentavano l’idea di eliminare il ministro dell’Interno. «Dalle galere dicono cose tinte (brutte ndr) su di lui», commentano i mafiosi Masaracchia e Pillitteri, riferendosi alle lamentele dei boss carcerati sul ministro. «È un cane per tutti i carcerati Angelino Alfano», aggiungono. Poi il riferimento a Kennedy, presidente degli Stati Uniti ucciso nel 1993. «Perché a Kennedy chi se l’è masticato (chi l’ha ucciso ndr)? Noi altri in America. E ha fatto le stesse cose: che prima è salito e poi se li è scordati». Nella conversazione i due mafiosi accennano, dunque, alla circostanza che Kennedy sarebbe stato eliminato dalla mafia perché, eletto coi voti dei boss, non avrebbe poi mantenuto i «patti».
I boss di Corleone tenevano saldamente il controllo del territorio e della sua economia. Disponevano di armi e progettavano omicidi. Tra gli obiettivi il ministro dell’Interno Angelino Alfano, ma non solo. C’era infatti il progetto di uccidere un imprenditore. Ma il mandamento non era compatto. Le due storiche anime, quella prudente e quella platealmente violenta, in una sorte di riproposizione delle opposte visioni dei padrini Bernardo Provenzano e Totò Riina, continuavano a scontrarsi. E quanto emerge dall’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Sergio Demontis, Caterina Malagoli e Gaspare Spedale. L’operazione «Grande passo 3», segue le due precedenti che tra il settembre 2014 ed il gennaio del 2015 avevano colpito gli esponenti delle cosche di Corleone e Palazzo Adriano. Individuato il capo mandamento in Rosario Lo Bue, fratello di Calogero già condannato per il favoreggiamento di Bernardo Provenzano, di cui condivideva la linea del basso profilo.
Ricostruito l’assetto del mandamento mafioso di Corleone (uno dei più estesi) ed in particolare dei clan attivi sul territorio dell’Alto Belice dei Comuni di Chiusa Sclafani e Contessa Entellina. E documentata la caratura della figura di Lo Bue, capo carismatico e fautore di una linea d’azione prudente, in continuità con Provenzano. Proprio questo suo modo di condurre le attività del mandamento ha creato non poche fibrillazioni negli assetti corleonesi. In particolare, Antonino Di Marco, tratto in arresto a settembre 2014, da sempre ritenuto vicino alle posizioni dell’altro storico boss corleonese Salvatore Riina, in più occasioni ha contestato il modo in cui Lo Bue gestiva l’organizzazione.
Le attività investigatove hanno dunque, ribadito che ancora oggi sussistono due anime contrapposte, l’una moderata e l’altra più oltranzista. Inoltre è stata nuovamente accertata la rigida applicazione di una fondamentale ed inderogabile regola di Cosa nostra, ovvero quella di garantire il sostentamento economico ai familiari degli affiliati detenuti, in particolare, Totò Riina. Documentata chiaramente la disponibilità di un arsenale di armi nascosto in una località in via di individuazione. Per gli investigatori dell’Arma Cosa nostra corleonese «ha continuato a mantenere saldamente il controllo del territorio con una costante pressione sul tessuto sociale ed economico, con un potenziale gruppo di fuoco», e doveva essere fermato al fine di evitare «progetti omicidiari e la commissione di altri gravi reati».