ROMA – La Corte Suprema indiana ha detto no alle istanze presentate dai due marò italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Latorre chiedeva un’estensione del suo soggiorno in Italia, accordatogli dopo l’ictus che lo aveva colpito a settembre (il suo permesso scadrà il 13 gennaio). Girone chiedeva invece il permesso della Corte per poter trascorrere le festività natalizie in Italia.
La notizia rappresenta un duro colpo per l’Italia, impegnata negli ultimi mesi a far sì che le ragioni della convenienza politica si impongano su quelle dei cavilli giudiziari. Tanto più duro se si guarda a come la notizia viene presentata nella stampa indiana, dove risuonano, come ai tempi della campagna elettorale per le presidenziali, echi di orgoglioso nazionalismo: «Le vittime indiane hanno anche dei diritti», «Spiacenti ma l’inchiesta non è chiusa», «Non è questione di pregiudizi ma di applicare lo stesso metro per tutti», scrive tra gli altri il quotidiano “The Hindu”. Inequivocabile la presa di posizione del Quirinale: «Il presidente della Repubblica, fortemente contrariato dalle notizie giunte da Nuova Delhi circa gli ultimi negativi sviluppi della vicenda dei marò – si legge in una nota diffusa nella tarda mattinata – resterà in stretto contatto con il governo e seguirà con attenzione gli orientamenti che si determineranno in Parlamento».
È evidente che pesa, nella decisione della Corte Suprema indiana, il precedente del Natale 2013, quando un’improvvida decisione del governo italiano annullò il previsto ritorno dei due marò a New Delhi dopo le vacanze di Natale, provocando un inasprimento della crisi, solo parzialmente mitigato dalla decisione, infine, di rimandarli indietro. Allo stesso tempo la decisione della Corte Suprema indiana fa riflettere, e offre un’indicazione indiretta di come muoversi: dando per scontato che di cavillo giuridico si tratta (diversamente non sarebbe stata concessa la licenza nel 2013, né il permesso a Latorre di curarsi in Italia), continuare a intestardirsi sulla strada delle procedure sembra inutile.
È l’ora di premere il piede sulla politica, sulle pressioni, sulle contromisure. Non sfugge a nessuno che l’Italia non ha una potenza contrattuale tale da spaventare un gigante come l’India (e adesso che la Russia si è eclissata è ancora peggio) , ma dalla politica dei visti a quella degli scambi, esistono pur sempre i margini per un negoziato che non deve necessariamente vederci sconfitti. Il linguaggio usato dagli indiani va capito: sono un Paese orgoglioso e una potenza ombrosa, ma allo stesso tempo hanno un urgente bisogno di riconoscimento internazionale. Su quest’ultimo punto l’Italia può fare molto, o almeno qualcosa.