Libera il tuo carceriere e sarai libero, disse il poeta vietnamita Cao Van. Liberarsi, dunque! E’ la prima forma di disordine, è il presente che invoca la vita del domani. Oppure: liberarsi è facile, difficile è sentirsi liberi, altra frase evocata da un grande della prosa che scriveva in lingua russa. Con queste due frasi dal sapore di libertà, ci accingiamo a leggere, un romanzo, completamente fuori da qualsiasi schema letterario: Ortiche. (Carlotta Desario, Il Viandante, Chieti ,2023).
Giovanissima autrice, dimostra con questo romanzo, la strada scritturale che vorrà percorrere. La vicenda si svolge in un carcere femminile. Donne detenute, ognuna con la sua storia, ognuna con la propria sofferenza, ma in realtà paradigma della questione femminile, che a tutt’oggi nonostante le conquiste sociali ha ancora una lunga strada davanti a sé da percorrere. E tutto questo è la chiave di lettura di questo lavoro, con cui Carlotta, entra di prepotenza nel mondo della narrazione e, per farlo da voce a donne, che nel suo lirismo narrativo diventano non personaggi, ma persone, in carne e ossa, sangue, sudore e lacrime.
Con sofferta eleganza, affida la sua scrittura alla raffinatezza stilistica e regala al lettore colto il lirismo dolente del suo mondo femminile. La limpidezza del racconto poetico, perche in ultima analisi, si tratta di prosa lirica, che ricorda i ritmi della migliore Elsa Morante, seppur in diverso abito letterario. Carlotta, raggiunge di parola in parola inaspettate latitudini filologiche, poiché riesce a sfuggire alla trappola della retorica esteriore, che inevitabilmente avrebbero portato la decadenza culturale e lirica. Allo stesso modo dà il diritto di cittadinanza all’esistere del fluido armonico del racconto.
L’autrice, impregnata della sua saggezza di scritturale e perché no, di poeta, si diceva, non cade nel “carcere” della vita immaginata, né si lascia smarrire in marginali narrazioni. Una scrittura, che nelle sue mani diventa racconto sociale ancorchè filosofico; il lirismo cristallino di lei, è una prova di dialogo tra realtà, brutale se vogliamo, e poesia auto, ma la lingua è l’unica possibile, quella dell’intimità più recondita dell’animo/anima femminile. Operazione filologica davvero complessa, ma Carlotta Desario, ha dalla sua l’impeto rinnovatore e una genialità stilistica di altissima levatura, e questa, “genialità” l’ ha portata, in questo romanzo a innovazioni linguistiche e semantiche che fanno di lei indelebile segno di personalità narrativa-poetica.
Ad ogni lettura, ogni parola, ogni pausa, più volte si palesa il carattere affabulante e della malinconia, delle donne-persone (e non personaggi, e qui è l’innovazione) o ancor meglio dei dolenti cromatismi, figli di una fragilità che viene di una cultura ormai lontana e portano ancor più, lontano nel luogo della luce, sintagma di libertà. Scrittura, quella di Carlotta, figlia legittima di innumeri frequentazioni, letterarie, certo, ma certamente di genesi interiore, di continua ricerca di sé stessa, un essere intriso di malinconia, poiché la voce, o le voci, narranti ancor più, scorrono nella lettura come previsioni di infinite albe . Un ritmo incalzante che pur venendo dal profondo, veste l’abito del tempo presente che nella parola diventa una sacralità, una scoperta di un universo di beltà.
Francesco Di Rocco