ROMA – La storia di Giulio Regeni sta diventando un caso internazionale molto serio. Nel giorno in cui ne parla il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, inviando un messaggio al direttore del Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani Flavio Lotti, in occasione del Meeting nazionale delle scuole per la pace, la fraternità e il dialogo («Non vogliamo e non possiamo dimenticare la sua passione e la sua vita orribilmente spezzata»), entra pesantemente il campo anche in New York Times che con un commento firmato dall’Editorial Board, ossia dal giornale nel suo insieme, si schiera con la linea dura dell’Italia e attacca il presidente Hollande prossimo a stringere la mano ad al Sisi.
Al Cairo l’impressione che la vicenda si stia rivelando un boomerang è diffusissima: gli attivisti hanno fatto di Regeni la bandiera della riscossa che soprattutto sui social network sventola in nome dei diritti quotidianamente violati in Egitto, le autorità si chiedono sempre più allibite come mai l’Italia abbia reagito in questo modo mettendo in discussione un forte partenariato economico bilaterale per “un incidente come ne accadono tanti nel mondo”, i media governativi cercano di tenere una linea “laterale” avvertendo la gravità della storia e limitandosi più possibile a rilanciare quanto scrivono i giornali internazionali. Gli egiziani comuni poi, quell’uomo della strada che finora non si era interessato più di tanto alla questione, stanno cominciando a sentire la pressione: chi lavora col turismo ha paura che gli italiani già latitanti non vengano più per niente e chi è poverissimo è stato molto colpito dalla storia dei cinque disgraziati ammazzati a sangue freddo per essere poi incredibilmente accusati della morte dell’italiano.
Da settimane fonti americane al Cairo palesano la preoccupazione di Washington non solo per quanto accaduto a Regeni (ricercatore all’American University del Cairo) ma per come poi il regime si sia di fatto rifiutato di collaborare con Roma. Oggi Il New York Times affonda pesantissimo: “La drammatica vicenda ha costretto almeno un Paese, l’Italia, a riconsiderare i propri rapporti con l’Egitto. È tempo che anche le altre democrazie occidentali facciano lo stesso (…) L’Italia ha chiesto agli altri governi europei di fare pressioni sull’Egitto. Alla fine Londra ha chiesto una inchiesta trasparente. Ma c’è stato un vergognoso silenzio dalla Francia, il cui presidente Francois Hollande, andrà al Cairo lunedì per firmare un contratto da 1,1 miliardi di dollari in armi». Per il New York Times «il peso della repressione di Al Sisi è caduto sugli egiziani, migliaia dei quali sono stati arrestati, e molti torturati e uccisi. Tra le vittime c’è Giulio Regeni».
Settimana dopo settimana, all’indomani della scoperta del cadavere martoriato di Regeni, l’aria al Cairo si è fatta sempre più irrespirabile. Dopo spericolati depistaggi (l’incidente d’auto, la pista omosessuale, la droga, la vendetta tra spie, la criminalità comune, il traffico di opere d’arte) il regime ha preso rigidamente a negare il proprio coinvolgimento accusando gli attivisti e i social media egiziani di disseminare bugie che creano inimicizie all’Egitto. Il punto è che a tratti si intuisce come alla versione dell’estraneità non creda in fondo neppure il regime stesso ma come soprattutto non creda che “questo incidente” possa seriamente portare l’Egitto all’isolamento internazionale (secondo le organizzazioni dei diritti umani e Amnesty International ci sono almeno 44 mila detenuti in carcere per reati d’opinione e sparizione forzate al ritmo di oltre tre a settimana).
Invece capita che perfino alla presentazione del libro di uno studioso belga in un’ambasciata del Cairo i diplomatici di una decina di paesi non parlino d’altro che di questo, come reagire per non isolare l’Italia, come salvaguardare i rapporti economici con el Sisi senza arretrare su Regeni, come conciliare pragmatismo e realismo con una soglia della decenza da lungo oltrepassata.