La storia letteraria italiana, spesso, nel suo continuo ricercare, o ancor meglio ricreare, offre ai suoi appassionati storie e racconti che “escono dagli schemi” della classicità narrativa. Si ha un’idea sacra di scrittura, se si pensa allo stile, alla raffinatezza della lettura, all’eleganza, quella che appunto si possa classificare nella canonicità della lingua nazionale. In realtà, tutto il bagaglio culturale e linguistico della nazione, ha per sua natura, madri illustri, spesso occultate, o ancor peggio “maltrattate”; il dialetto!
Si, la lingua dell’anima, la vera parola madre, quella che nasce, appunto, nel petto per poi arrivare direttamente al suono della bocca. Dialetto, che ha la medesima dignità filologica delle lingue nazionali. Sentire un testo in “lingua dialettale” trascina il lettore in realtà locali, al contempo gioiose, intrise di malinconia, e cadenze di sanguigna ironia e ne recupera la sopita forza espressiva. Contaminazioni di stili diversi di scrittura, e lettura e questa è un’abilità che solo una lettura saggia può cogliere.
Operazione che fa l’attore teatino Angelo del Romano. In veste di poeta, nel bellissimo testo poetico “Versi d’Abbruzze- Pe’ le vije de l’aneme!” (Masciulli edizioni) che sta portando in scena in questo periodo. La prima ha visto la luce il 20 dicembre a Giulianova a cura dell’ Editore Masciulli e il 30 dello stesso mese presso il Cantiere Teatrale Adriatico, diretto da Milo Vallone. E una terza presso Orogemme , a Chieti il 4 dicembre.
Angelo ha donato al pubblico versi del dialetto teatino, quello della nobiltà popolare; il fabulare armonico del sentimento più profondo, parola che si fa accento dell’anima, al cospetto della scena teatrale. Una lettura interpretata, vibrante di corde e giocata nelle sue diverse sfumature di narrazione, che di volta in volta, assumeva l’aspetto saggista, ma che in realtà altro non è che una forma elegante di introspezione, che solo il dialetto, la cristallina lingua del “animus popolare” più profonda.
Un’operazione culturale, un libro coraggioso, dunque, appunto fuori dagli schemi, siano essi scenici che letterari: la poesia, la parola dialettale, (che è già poesia di per sé) un recupero geniale del mondo dialettale, che molto spesso è stata maltrattato, preso in giro, svuotato da certa commedia. Nel procedere nella lettura, netta si ha la sensazione di addentrarsi, appunto, in un labirinto che pone domande, a cui non si può dare nessuna risposta, è “quel profondo oscuro” della memoria del popolo, che Angelo sta riportando a nuova vita per salvaguadarla dalla voracità mercantile odierna, e torna nel suo grembo materno, per rinascere in una nuova idea di “religione della vita”.
La recitazione, mai banale, sul palco è stata accompagnata dalla voce melodiosa del canto di Simona Berardocco, (consorte di Angelo) che ha deliziato la platea con canzoni della tradizione abruzzese, e il vibrare virtuoso della chitarra di Gianfranco Cesarone, trascinando il pubblico in fantasie di mai sopita giovinezza, e dalla presenza sensuale dell’attrice Rosy Binni, che intratteneva sguardi e passioni con magici fluidi della sua voce.
FRANCESCO DI ROCCO