Non si può, a meno che non si abbia una dose notevole di cinica indifferenza, o nella ipotesi migliore, un senso critico distaccante, leggere un dramma intimo, personale, senza potersi sentire coinvolti. E’ il senso scioccante che offre la storia personale di Sabrina Marchetti, narrato dalla stessa nel romanzo-verità “COLPA DI CHI”.
E’ lei, in prima persona che ha il coraggio di mettersi a nudo, raccontare quella maledizione del buco nero della sua storia personale. Sabrina racconta di sé usando la scrittura del lirismo tragico come una lama affilata che ti lacera la pelle, e penetra in un labirinto a tinte fosche che inesorabile, come un fato già scritto, dissolve l’identità personale in infinite ritualità macabre, che come un “gulager”, sistematicamente annienta la persona.
Un castello degli orrori della droga, senza uscita, poi la prostituzione, una solitudine assurda, che nessuno al mondo vuole condividere, ma è la sua carne, il suo sangue, che hanno gli stessi contorni della sua anima, quella di Sabrina. E quando il fato distribuisce le carte, il diavolo le mescola e gli uomini ci giocano, ecco che sulla strada della ragazza si intromettono i servi della malavita di turno che nel loro delirante cervelletto di utile idiota, vogliono sentirsi padrone e trasformare la vita di una adolescente in un incubo abissale scolpito nelle vene.
E’ la sconfitta dell’io, e Sabrina ne parla con un tono narrativo incalzante, dove il tempo si perde per poi ritrovarsi al giro vorticoso della spirale violenta, la sua fisicità si avvilisce e sopporta l’oltraggio imposto ai perdenti, umiliati e ultimi. Ma proprio questa è la forza della scrittura, il tempo passato fa da specchio al presente della rabbia mai sopita, ma che diventata arte al momento della parola scritta. Una narrazione devastante, che provoca, che lascia segni, dove non si è più se stessi, si è altro, perché è uno spaccato di vita di una persona, una donna normale, che ha dovuto toccare il fondo, che ha fatto della sua verità la vittima sacrificale dell’altrui pregiudizio con il dito puntato. Una sofferenza tangibile, che si è fatta arte, che lascia interdetti e muti, perché altro non c’è da dire.
Sabrina scrive con il ritmo tragico della scrittura drammatica, appare il luogo della non volontà, la donna oggetto da manipolare, per sua stessa mano. E il teatro dell’io, l’anima-animale, la scena del corpo che si racconta, ma non si piega al conformismo della bella città. Scrive e provoca, e la sua lingua è pulita, come cristallo, gioca con il tempo, oggi è ieri, ieri è l’attimo della sensazione, ha una sintassi essenziale, la mano ferma di chi si è ripresa con interessi la sua storia per farne arte di narrazione. Lirica del vissuto, il corpo provato, ma mai piegato, perché in questa prosa dolente c’è tanta poesia, è il tormentoso esserci di un’intensità che violentemente vuole tornare a vivere, come un fluido virtuoso gravido di passione, a volte di struggente malinconia, a volte di infinita dolcezza.
Il romanzo è la letteratura della memoria, una mitologia senza tempo, è l’intimo che rinasce, che sfugge per sempre al fantasma della tossicodipendenza, è il romanzo, uno scrivere, sempre carnale, come un flusso di sangue che si rigenera ad ogni vena, è il richiamo irruento di Sabrina alla sua città, spesso distratta e sonnolenta, imbevuta com’è di cloroformio conservatore che tende a emarginare ipocritamente “il diverso” in quanto disgrazia sociale. Sabrina, scrittrice rinata a nuova vita provoca con l’ardire del suo scrivere. Dunque, una prosa intensa, una grammatica fisica che trascina e trasforma il lettore in compagno di strada, un cammino ormai sicuro, senza più paure.
URANUS