ROMA -A Berlino e a Pechino, ma anche a Washington, a Parigi, a Bruxelles, l’auspicio è quello di una continuità di governo per l’Italia. In una Europa affaticata da una ripresa economica che non arriva mai; lacerata su come affrontare le ondate migratorie e con i Paesi-guida (Germania e Francia) in vista di elezioni politiche dall’esito incerto, Matteo Renzi e i suoi venti mesi consecutivi di governo vengono visti dalle cancellerie più importanti come una boa da salvaguardare.
Poche ore prima che l’ambasciatore americano a Roma John R. Phillips si producesse nelle due esternazioni che si sono trasformate in un caso politico, da Washington era arrivato un segnale forte. Con l’annuncio della Casa Bianca dell’invito da parte di Barack Obama a Matteo Renzi per la sera del 18 ottobre, ventuno giorni prima dell’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Invito accompagnato da un dato simbolico: quella con l’Italia sarà, per Obama, l’ultima visita di Stato ospitata alla Casa Bianca. Nella lettura informale dell’evento – da Washington – si sottolineava come l’invito contenesse anche un investimento strategico sull’Italia e sulla sua stabilità politica. Ma al tempo stesso si faceva sapere che l’invito di Obama a Renzi non andava interpretato come un «endorsement» in vista del referendum istituzionale di fine autunno in Italia.
Poi, ieri mattina, è arrivata la doppia esternazione dell’ambasciatore Phillips: da una parte l’auspicio per la vittoria del Sì al referendum costituzionale, dall’altro – ancora più irrituale – il timore che gli investimenti americani possano allontanarsi in caso di vittoria del No. In poche ore si è sollevato un caso politico, che nella protesta contro l’ambasciatore americano ha visto uniti Sel e gli ex missini di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Cinque Stelle. La doppia esternazione pro-Renzi in poche ore si è dunque trasformata in boomerang, o in qualcosa che vi si avvicinava. E il presidente del Consiglio? A palazzo Chigi non erano stati informati da parte dell’Ambasciata americana sulle intenzioni di Phillips, ma una volta che le dichiarazioni sono entrate in «rete», Renzi ha evitato qualsiasi commento, anche informale. Nessun imbarazzo, si fa sapere da palazzo Chigi. Anche perché quel che ha mosso l’ambasciatore americano è un impulso spiegato da Massimo Teodori, autore di numerosi saggi sulla storia degli Stati Uniti: «Dopo gli anni settanta la politica americana verso un Paese tradizionalmente instabile come l’Italia è tutta centrata sulla stabilità, come dimostrano tutti i rapporti inviati dai diversi ambasciatori».
Sorpresa in Renzi per il riverbero anti-americano di alcuni commenti alla sortita dell’ambasciatore e qualcosa in più della sorpresa, «per le dichiarazioni di un vicepresidente della Camera», che è arrivato a paragonare Renzi a un dittatore come Pinochet. Certo, il presidente del Consiglio sa che con un’opinione pubblica nella quale gli umori anti-establishment sono così forti, vedersi appoggiare da agenzie di rating e governi stranieri, può essere controproducente. Anche per questo palazzo Chigi ha optato per il silenzio.